FARE FORESTA
Prove di assembramento sonoro ai tempi della quarantena.
Un progetto a cura di John Cascone, Arianna Desideri, Jacopo Natoli
FARE FORESTA è stato un “assembramento” virtuale. L’operazione era semplice: collegarsi ad una room aperta creata sulla piattaforma ZOOM, tramite il codice presente nel sito del progetto. Durante la connessione, i partecipanti si sono immersi in un habitat selvaggio di immagini e suoni: un contenitore del possibile, per oltrepassare o dilatare i limiti del proprio spazio abitativo e ritrovarsi in una foresta popolata da altrettante creature invisibili, contemporaneamente connesse per fare f(or)esta.
Sullo schermo scorreva un apparato visivo vario, collezionato tramite il libero contributo dei partecipanti, nella fase uno del progetto. Sono stati trasmessi screensaver, fotografie, immagini elaborate con l’algoritmo DeepDream, gif e video; alcuni hanno disegnato e scritto in tempo reale sulla schermata. Nella room, abbiamo interagito in un coro asistematico, fatto di suoni vocali, verbali, onomatopeici, riprodotti, sussurrati etc. con lo scopo di condividerli in estemporanea con il resto dell’ecosistema. Per 24 ore, dalle 00:00 alle 24:00 del 13 aprile 2020, circa 100 persone hanno fatto foresta.
Vogliamo qui appuntare una breve analisi dell’operazione, che riteniamo essere – fino a prova contraria – una delle prime prove di assembramento virtuale iper-significante, espressivo-relazionale, poco gerarchizzato, insomma: una performance collettiva a-corporea dove a tessere i fili della comunità temporanea è stata una forma di “delirio-sonoro-protetto”.
Vogliamo qui evidenziare potenzialità e criticità, anche alla luce di un feedback ricevuto dai partecipanti, attraverso un questionario sottoposto dopo l’esperienza.
Nei video qui riportati, è possibile invece assistere all’intera durata della performance.
1. FARE FORESTA, 13 aprile 2020, ore 00:00-08:00
Perché Fare Foresta?
L’etimologia di “foresta” fa riferimento all’esterno, al metter fuori, al bandire, al selvaggio, al rozzo, ma anche al solitario. Evoca un luogo fuori l’abitato, selvatico, posto oltre la legge comune, bandito, proibito. La foresta è stata una perfetta metafora mitogenetica per dar vita a un contenitore del possibile e dell’altrove; per portare un “fuori” “dentro” e allo stesso tempo uscire da una condizione di isolamento ed entrare in un flusso condiviso.
La foresta è stata quindi la cornice di un ambiente simpoietico dove interagire secondo modalità non-comunicative ma espressive, primordiali, al di là delle logiche del linguaggio verbale. Abbiamo svuotato di contenuto i canali ipersemiotizzati dell’ambiente virtuale per renderlo puro significante interattivo di versi, cinguettii, ululati, suoni sintetico-elettronici, come all’interno di un ecosistema senza governo.
In più, la condizione di isolamento entro i confini domestici e la de-saturazione degli spazi pubblici ha permesso alla natura di riaffiorare lì dove l’umano l’aveva espulsa, cacciata, azzerata. Un elemento che dovrebbe mettere in discussione i nostri ritmi di vita, le nostre espansioni-invasioni rispetto alla preziosità e alla fragilità dell’equilibrio biologico del mondo. Allora, perché non fare foresta, perché non trasformarci in animali, piante e atmosfere, perché non sintonizzarci a questa rinascenza?
2. FARE FORESTA, 13 aprile 2020, ore 08:00-20:00
Dove sei? Chi parla?
Fare Foresta: portare il selvaggio a casa propria, per 24 ore; entrare e uscire, ascoltare, emettere, s-coordinarsi, pensare di rispondere, modulare; tornare bestiacce feroci, homo-(ho)mini-lupus: ecco perché. Percepire l’altro non come figura, come forma-viso, individuo, emittente comunicazionale, informazione e ridondanza, no: la sovrapposizione, la simultaneità e l’affastellamento insensato sono state modalità di incontro. Nella foresta l’altro era mancanza, essenza, difficile da individuare, cacofonico, privo di significato, perso ma presente sotto forme inedite, non codificate. L’io social ipertrofico è stato disperso in una materia visiva-sonora informe. La co-abitazione della foresta ha rappresentato l’esplorazione di un sentire collettivo, non di un ascolto, ma un sentirsi reciproco e fluido, disordinato, in una dimensione infantile di scoperta e sorpresa, di gioco, di evasione energetica. Una comunità, un branco, uno stormo per dimenticare il troppo umano.
Il tempo dilatato e lo spazio smaterializzato
La foresta è esistita per 24 ore. Durante tutto l’arco della notte e della giornata si sono incrociate circa cento persone, senza alcuna programmazione specifica e alcun palinsesto confezionato dai curatori. I soli elementi preimpostati, ma anch’essi derivati da una ricerca collettiva nella fase precedente all’evento, erano i cambiamenti di scenario dal giorno alla notte, per creare un’atmosfera quanto più coerente e immersiva rispetto al mutamento atmosferico che contraddistingue la foresta allo scorrere delle ore.
Il caso e l’accidente hanno guidato quindi l’alternarsi degli utenti, degli abitanti: un azzardo, se vogliamo, che ha determinato anche silenzi imprevedibili, dato che il format è stato pensato fuori dalla logica dell’appuntamento circoscritto. C’è chi è rimasto connesso per quasi tutta la durata dell’operazione, chi ha partecipato per pochi minuti, chi si è ricollegato a più riprese in tutta autonomia e libertà, in un andirivieni continuo, a volte persino solitario. Una camera a disposizione in cui proiettarsi, un varco presente e in attesa di qualcuno. Il tempo dilatato e lo spazio smaterializzato si sono configurati come un dispositivo percettivo individuale, soggettivamente interpretato e utilizzato. Ognuno dalla propria stanza, eppure catapultato in un ambiente magico, popolato da voci e immagini; tutti lontani, eppure immersi in una sinfonia improvvisata.
3. FARE FORESTA, 13 aprile 2020, ore 20:00-24:00
Reinventare i mezzi, ripensare la comunità
Siamo consci delle criticità che l’uso di un’app come ZOOM comporta. Lo stato di emergenza in cui ci siamo sentiti nonché l’urgenza di sperimentare nell’immediato ci ha portato a optare per un atteggiamento di resilienza. Tra l’altro, ZOOM ha un limite che si è rivelato davvero incidente per l’espandersi sonoro della foresta: tagliare tutte le frequenze riconosciute dalla macchina come “rumore”, selezionando e prediligendo invece i suoni squisitamente verbali. Il limite, una volta constatato, si è però rivelato una soglia di sperimentazione e di adattamento, come accade in natura. D’altro canto, ZOOM è stata selezionata poiché assicura una connessione molto stabile tra un elevato numero di partecipanti.
Il vero nodo critico è che l’app – come qualsiasi piattaforma mainstream per le videochiamate online – non è lontana dal circuito AFGUPA (Amazon-Facebook-Google-Uber- Paypal-AirBnB), un gigante della rete che in questo periodo (e non solo) si impone come strumento e veicolo indispensabile di tutte le nostre interazioni professionali, affettive, creative.
Come pensare una comunità artistica aperta in relazione o al di là di questi circuiti? Dobbiamo ripensare allora e dotarci di infrastrutture e spazi altrettanto potenti e funzionali, per condividere liberamente e fuori dalle reti di controllo le nostre esperienze virtuali: questa è una questione enorme, che dal sorgere del Web si ripropone ciclicamente ma che, mai come ora, ha bisogno di essere elaborata e discussa a gran voce. Oltretutto siamo consapevoli dell’importanza di ritornare a vivere ed abitare lo spazio pubblico, a condividere i nostri corpi. Contemporaneamente però vogliamo giocare e sondare i limiti e le potenzialità di certi strumenti. Che queste esperienze possano essere linfa vitale per l’ora e per il dopo, che amplino le nostre funzioni cognitive e percettive e si trasformino da apparati di cattura a dispositivi mitogenetici per espandere l’immaginazione collettiva.
Sperimentare sui bordi e sui confini quindi, per tessere nuove trame di incontro, comunità ed esperienza estetica partecipata.